di Alessandro Artini
Il breve saggio dello scrittore americano Jonathan Franzen, per i tipi dell’Einaudi, non è facile da leggere. Intendiamoci, esso è scritto molto bene e anche la traduzione è ottima, ma i contenuti che l’autore ci comunica fanno male allo stomaco. Il titolo, che è il seguente, contiene icasticamente il messaggio: “E se smettessimo di fingere. Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica”. Franzen, infatti, ci avverte che ormai il tempo per prevenire il cataclisma climatico è già scaduto. È meglio prendere atto, senza infingimenti razionali e ipocrisie, che tutto ciò che possiamo fare è interno all’apocalisse, la quale è già in corso. In tal senso, tra chi afferma “Diamoci da fare, possiamo ancora salvare il pianeta” (sinistra democratica americana, ecologista) e chi nega la catastrofe: “I cambiamenti climatici ci sono sempre stati, ricordate le glaciazioni dei libri di storia” (destra repubblicana di Trump) non c’è grande differenza. Entrambe le posizioni, in qualche misura, occultano la cruda realtà che stiamo vivendo.
Franzen si rende conto di averci preso a schiaffi perché le sue parole sembrano abbattere ogni speranza, ma egli obietta che quest’ultima, se è autentica, si nutre di “sincerità e amore. Di sincerità perché la speranza è un investimento, che è meglio compiere con gli occhi bene aperti. E di amore perché, senza amore, non c’è nessuna speranza che valga la pena di coltivare”. Quindi è necessario avere una visione oggettiva e perspicua: non dobbiamo pensare di evitare la catastrofe, ma semmai elaborare la capacità di affrontarla “in modo consapevole e umano”.
Occorre riflettere sul significato del termine speranza. Essa non può consistere in avvertimenti come “Rimbocchiamoci le mani per salvare il pianeta e l’umanità”, facendo appello a una volontà collettiva inesistente, perché tali moniti riflettono più una necessità psicologica che non un atteggiamento razionale. Essi sono comprensibili perché viviamo nel presente e la nostra mente, a fronte della certezza futura della nostra morte, che è un’astrazione mentale, preferisce l’evidenza sensibile e concreta della colazione mattutina. Ma Franzen non scherza e ci invita, con un linguaggio netto, a prendere atto che, a breve, noi occidentali saremo costretti ad accettare, senza tante chiacchiere, un aumento delle tasse, per porre in essere misure estreme, e anche a un ridimensionamento del nostro tenore di vita. Quasi con un taglio utopistico, egli afferma che non ci sarà più spazio per nazionalismi, classismi e odio razziale; dovremo fare sacrifici anche per le nazioni lontane e le generazioni future, perché non farli inciderà negativamente sul nostro presente. Le parole conclusive di questo ragionamento sono dure come pietre e sferzanti come venti di tempesta. Gli uomini odierni, infatti, dovranno essere “costantemente terrorizzati dalle estati più calde e dai disastri naturali più frequenti, anziché semplicemente abituarcisi. Ogni giorno, invece di pensare alla colazione, dovranno pensare alla morte”.
Le conclusioni di Franzen, che risalgono al 2019, mentre ci lasciano perplessi, contestualmente ci intimoriscono, perché fanno leva su alcune nostre esperienze recenti di natura inquietante. Penso agli eventi atmosferici come i nubifragi, le trombe d’aria, le violente grandinate e le temperature di caldo violento e ossessivo che abbiamo recentemente provato, cui si aggiungono la siccità e la devastazione degli incendi. Tuttavia, il discorso del romanziere contiene anche una pars costruens, che in una certa misura compensa quella destruens.
Possiamo cercare di ridurre le emissioni di anidride carbonica e, se ciò avvenisse, potremmo procrastinare il punto di non ritorno, anche se, nell’agenda setting dell’opinione pubblica mondiale si impone il tema dell’estinzione di massa. Ovviamente dobbiamo preservare la biodiversità, ma anche dedicarci a questioni come quelle della prevenzione degli incendi o delle inondazioni. E tanto altro ancora.
Nonostante la dimensione planetaria dei problemi, alcuni interrogativi potrebbero avere pertinenza anche nella attuale campagna elettorale in corso nel nostro paese. Poiché è sempre lecito comporre le questioni più piccole con quelle più grandi, forse sarebbe il caso di rivolgere alcune domande concrete ai politici dei vari schieramenti. Come possiamo prevenire gli incendi, alcuni dei quali dolosamente provocati? È il caso di rivedere la normativa penale al riguardo? Poi la questione dell’acqua. Oggi entriamo nei supermercati e tra gli scaffali troviamo tutto ciò che vogliamo, ma la Gabbanelli, in un articolo del Corriere di qualche giorno fa, poneva la questione anche in termini di razionamento di questa risorsa. Pensiamo che sia mal posta? O forse è troppo sgradevole e distonico, nel bel mezzo del profluvio delle mirabolanti promesse elettorali, affrontare anche una tale questione. Il rubinetto del gas russo a breve si chiuderà: qualcuno dei politici in lizza vuole dedicare qualche parola al tema, nonostante esso non abbia il caratteristico alone luminoso delle facili promesse.
Soprattutto la parte del saggio di Franzen che più apprezzo è quella relativa alle piccole cose, quelle di dimensioni modeste o addirittura locali, che potrebbero tuttavia avere una loro sensatezza. Perché vi sono delle grandi guerre perse in partenza, che comunque dobbiamo portare avanti per disperazione e, a lato di esse, si hanno anche delle battaglie minori, che possono essere vinte. Così Franzen racconta della comunità di consumo di cui fa parte, che ruota attorno a una piccola fattoria, composta da homeless i quali, nel lavoro agricolo, hanno trovato una via di riscatto personale e collettiva. Soprattutto, la parte del saggio che più mi convince è quella dedicata al valore della democrazia. In tempi di caos sociale crescente, dove si ripropone una sorta di tribalismo, il funzionamento dello stato di diritto rappresenta la migliore difesa contro la distopia della catastrofe climatica.
Per questo non è male sapere se i contendenti per il governo del nostro paese stanno dalla parte della democrazia o da quella di Putin. Può non sembrare, ma questi ultimi si trovano trasversalmente in quasi tutti i partiti.